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Empatia: lati positivi e lati negativi

12 giugno 2017

Biologi e neurologi vogliono molto bene all’empatia. Io, invece, da persona particolarmente empatica gliene voglio un po’ meno. Capisco perfettamente che abbia un valore sociale ed evolutivo positivo, ma possiamo, per favore, dire che è anche una disgrazia? Fino a qualche tempo fa pensavo di essere la sola ad avere un rapporto conflittuale con l’empatia, oggi invece ho scoperto che la scienza mi dà ragione. Ma partiamo dall’inizio.

Che cos’è l’empatia

L’empatia è la capacità di comprendere lo stato d’animo altrui, quella predisposizione che nel linguaggio corrente definiamo “mettersi nei panni dell’altro”, indipendentemente dal tipo di emozione (positiva o negativa) che sta provando l’altro. Potremmo definirla come una forma di comunicazione non verbale, che aggiunge alla comprensione del discorso una profondità maggiore. Riferire a se stessi le emozioni dell’altro ci aiuta a interpretare le sue parole in un modo completamente diverso.

Storia dell’empatia

Il termine empatia ha origini greche: deriva da en-pathos, che significa “sentire dentro”. Nell’antica Grecia veniva utilizzato per indicare il rapporto che legava l’aedo (cioè il cantore) al proprio pubblico: una relazione di con-fusione emotiva. Ma perché venga utilizzato con un significato simile a quello che gli attribuiamo oggi bisogna aspettare la fine dell’800. Robert Vischer, studioso di filosofia estetica, si riferisce alla capacità di cogliere il valore simbolico della natura, con la parola tedesca Einfühlung. Empatia inizia quindi qui a indicare la lettura di un significato profondo, nascosto. Ma soprattutto, è a partire da questa prima definizione che il termine inizia a farsi strada nella riflessione estetica e significare il rapporto dell’osservatore con l’opera d’arte. Nel frattempo, però, a inizio ‘900 l’empatia approda anche nella psicologia. È Theodor Lipps a introdurla, indicandola come la partecipazione profonda all’esperienza di un altro essere e introducendo così la dimensione dell’alterità, dell’empatia come relazione interrogativa. Secondo Lipps quando noi vediamo un certo movimento nell’altro lo associamo all’emozione che noi stessi proviamo quando ci muoviamo in quel modo.

Un approccio, questo, che, facendo un salto temporale, ci riporta direttamente alla teoria, molto più recente, dei neuroni specchio, utile a spiegare neurologicamente l’esistenza dell’empatia. I neuroni specchio sono quei neuroni che si attivano quando un individuo compie un’azione e quando l’individuo osserva la stessa azione compiuta da un altro soggetto. Sono all’origine di un comportamento imitativo, che è stato osservato nei primati, così come nei bambini. In questo senso sono la base neurologica della nostra capacità di immedesimazione.

Percepire un’azione – e comprenderne il significato – equivale a simularla internamente. Ciò consente all’osservatore di utilizzare le proprie risorse per penetrare il mondo dell’altro mediante un processo di modellizzazione che ha i connotati di un meccanismo non conscio, automatico e prelinguistico di simulazione motoria. […] Quando vedo qualcuno esprimere col proprio volto una data emozione e questa percezione mi induce a comprendere il significato emotivo di quell’espressione, non conseguo questa comprensione necessariamente o esclusivamente grazie a un argomento per analogia. L’emozione dell’altro è costituita dall’osservatore e compresa grazie a un meccanismo di simulazione che produce nell’osservatore uno stato corporeo condiviso con l’attore di quella espressione. È per l’appunto la condivisione dello stesso stato corporeo tra osservatore e osservato a consentire questa forma diretta di comprensione, che potremmo definire empatica

L’esistenza dei neuroni specchio conferma che l’empatia non è un comportamento insorto casualmente, ma che fa invece parte del nostro patrimonio genetico, e quindi, come tale, si è evoluto, è il frutto di una maggiore socializzazione di alcune specie animali. Senza empatia, senza capacità di capire l’altro, la società non riuscirebbe a sopravvivere.

L’empatia e gli altri animali

A lungo si è ritenuto che l’empatia fosse una capacità neurologico-psicologica propria solo di specie animali particolarmente intelligenti, come i cani, i delfini e i primati. Recentemente però si è scoperto che non è così e che, probabilmente, l’empatia nel regno animale è ben più frequente di quello che abbiamo sempre pensato. A sostenerlo è Frans de Waal, esperto del comportamento sociale dei primati, che ha realizzato uno studio sulle arvicole delle praterie, delle specie di criceti. Lo studio è stato svolto dai ricercatori dallo Yerkes National Primate Research Center della Emory University: sono stati presi alcuni esemplari di arvicola delle praterie legati da una precedente conoscenza o da un certo grado di parentela; sono stati separati e alcuni di loro sono stati sottoposti a trattamenti molto stressanti, come piccole scosse elettriche. Quando poi son stati riuniti è successo che quelli che non avevano subito il trattamento correvano a consolare i soggetti più stressati, a riprova del fatto che ne comprendevano in qualche modo lo stato emotivo.

Da sempre gli scienziati sono riluttanti ad attribuire l’empatia agli animali, e spesso assumono che i loro comportamenti siano sempre guidati da motivazioni egoistiche. Questo genere di spiegazioni però non hanno mai funzionato particolarmente bene nel caso dei comportamenti consolatori, ed è questo a rendere estremamente interessante il nuovo lavoro

L’empatia è positiva o negativa?

Anche in questo caso si è a lungo pensato che l’empatia avesse una funzione unicamente positiva e soprattutto necessaria per una vita socialmente sana. Infatti la sua assenza è stata associata a una serie di disturbi o psicopatologie, che vanno dalla sindrome di Asperger al disturbo narcisistico. Eppure ognuno di noi ha sperimentato, almeno una volta nella vita, il lato oscuro dell’empatia: magari vi è capitato quella volta in cui stavate guardando un thriller e vi siete immedesimati nell’emotività dell’assassino, oppure vi è capitato di tornare a casa e di scoprirvi molto più stanchi del dovuto, senza capire perché. La spiegazione potrebbe nascondersi in una vostra eccessiva propensione all’empatia.
Uno studio interessante, svolto da un gruppo di ricercatori della University of Pennsylvania e pubblicato sul Journal of Experimental Social Psychology, ha infatti individuato due differenti comportamenti empatici. Il primo si verifica quando ci immaginiamo come si sente un’altra persona in una determinata situazione, quindi cerchiamo di adottare il suo punto di vista, restando però nei nostri panni. Il secondo invece si verifica quando immaginiamo di essere noi stessi nella situazione dell’altro, non adottiamo il suo punto di vista, ma viviamo come se fossimo in quello stesso contesto psico-emotivo. Per realizzare lo studio i ricercatori hanno sottoposto a 212 volontari la storia di un uomo con gravi problemi economici. I volontari sono stati divisi in due gruppi: al primo gruppo è stato chiesto di adottare il punto di vista del protagonista della storia, mentre al secondo gruppo è stato chiesto di immedesimarsi più a fondo. I ricercatori hanno misurato la loro pressione e i battiti cardiaci e hanno scopetto che il secondo gruppo, e quindi il secondo tipo di empatia implica uno sforzo fisico molto più grande del primo. Il problema è che, nella vita di tutti i giorni, i nostri comportamenti empatici scaturiscono spontaneamente ed è molto difficile scegliere razionalmente se adottare la prima o la seconda forma. Il risultato è che chi ha, di suo, un’empatia molto sviluppata può arrivare a fine giornata emotivamente e psicologicamente drenato.
Cosa significa tutto questo? Che l’empatia è indubbiamente necessaria, ma il fatto che qualcosa sia necessario non significa che sia anche (e sempre) buono. E che, forse, è arrivato il momento di provare a viverla diversamente: smettere di pensare a quello che provano gli altri mettendoci in mezzo il nostro ego. Forse è sufficiente guardare la persona che si ha davanti per quello che è: un “altro” diverso da noi. Così facendo potremmo essere più di aiuto e risparmiare più energie.

Source: freedamedia.it

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