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Il Guardian contro Facebook: ‘Non si tratta di un innocuo passatempo’. Ecco perché

20 marzo 2018

Nessuno può più fare finta che sia solo un divertimento innocuo: dice più o meno così un durissimo editoriale del Guardian dedicato a Facebook, secondo cui “è ora di iniziare a trattare Facebook come la gigantesca multinazionale che è”. A scrivere il duro editoriale contro il gigante dei social è la freelance Ellie Mae O’Hagan che prende una posizione molto esplicita circa la questione dell’ “innocenza’ di Facebook rispetto a due questioni chiave: la prima i contenuti; la seconda i dati degli utenti e l’uso che se ne fa.

Andiamo con ordine.

La questione della responsabilità di Facebook rispetto a quel che sulle sue bacheche viene scritto è faccenda antica quasi quanto Facebook stessa. Di fatto ha ragione Facebook quando rivendica il suo ruolo di contenitore vuoto e dice di non essere più responsabile di quel che gli utenti di scrivono (sia un proclama pro Isis o un augurio di compleanno) di quanto una compagnia telefonica sia responsabile di una telefonata di minacce. Vero: Facebook è uno spazio bianco in cui ciascuno scrive quello che gli pare e Facebook, in prima persona, non scrive niente. Ma non del tutto. Perché Facebook (al pari di Google, seppur con altre dinamiche), anche se non scrive, di fatto sceglie. Sceglie cosa mostrare e cosa celare, sceglie cosa promuovere e cosa addirittura censurare, oscurandolo (succede, oggi, con i post a sfondo violento o razziale o pornografico, ma un domani, volendo, potrebbe succedere per qualsivoglia altro contenuto): “Ciò che gli utenti di contenuti vedono – scrive il Guardian- è deciso da un algoritmo che può cambiare senza alcuna consultazione”. Questo non ha solo ricadute ideologiche e politiche (che giustamente preoccupano) ma anche economiche: “Nel mese di febbraio 2018- riporta ancora il quotidiano- il sito web Digiday ha riportato il caso di LittleThings, un sito che ha chiuso i battenti anche e soprattutto per effetto della modifica dell’algoritno che ha fatto sparire i loro contenuti dalle pagine degli utenti”.

Poi c’è la questione dati, di grande attualità dopo il caso di Cambridge Analytica: anche qui, va detto, Facebook, direttamente, non ha fatto niente di male. Se violazioni e forzature ci sono state, queste sono state commesse dalla società di Steve Bannon, non da quella di Mark Zuckerberg.

A Facebook, tutt’al più, si può imputare la colpa di essersi voltato dall’altra parte. Ma fino a che punto, questa non è una colpa? E soprattutto: cosa succederebbe se Mark Zuckerberg decidesse (posto che non lo abbia in qualche modo già fatto) di usare i dati in suo possesso per un’operazione in qualche modo simile a quella compiuta da Cambridge Analytica?

Facebook, a oggi, ha una marea di informazioni su ognuno di noi: dalle più spicciole alle più complesse. E continua a raccoglierne, anzi, più precisamente, continua a riceverne dagli utenti stessi, che felici e inarrestabili, continuano a fornirgliene. A spiegare il perché di questa compulsione a condividere è Roger McNamee, uno dei primi investitori (e oggi più feroci critici) di Facebook, che sostiene che l‘azienda tiene legati a sé gli utenti con sistemi simili a quelli del gioco d’azzardo, con notifiche costanti e premi variabili  (il like, il riscontro dagli altri, le interazioni praticamente incessanti….).

Ma non è tutto: “Tenendoci aggrappati, Facebook è in grado di conservare una grande quantità di dati su di noi. Ciò che sorprende e preoccupa – scrive il Guardian – sono i dati derivati che Facebook ha, i profili che può costruire dai suoi utenti sulla base di informazioni apparentemente innocue. Per esempio, l’autore del libro Networks of Control, Wolfie Christl, ha osservato che un brevetto di Facebook riesce a elaborare i tempi di spostamento delle persone utilizzando i dati sulla posizione delle app mobili. Quindi utilizza questo e altri dati per separare gli utenti in classi sociali, in base alla velocità di connessione e a quella di spostamento”.
Ad aggravare tutto questo, poi, si aggiunge il fatto che, Facebook opera in regime privo di concorrenza visto che, di fatto non ne ha e, comunque, compra quella poca che di tanto in tanto si presenta (Instagram o WhatsApp).

“Se ExxonMobil – conclude impetuoso l’editoriale – avesse tentato di inserirsi in ogni elemento della nostra vita in questo modo, ci sarebbe una sollevazione popolare. Forse è il caso di iniziare a trattare così anche Facebook”.

Source: https://it.businessinsider.com

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