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Marina Abramovic: l’arte, le performance e l’importanza della vulnerabilità

31 maggio 2017

Non mi ricordo esattamente come o quando ho conosciuto per la prima volta l’opera di Marina Abramovic. Forse ero al liceo o forse era il periodo della celebre performance al MoMA, che l’ha consacrata a un tipo di successo non solo internazionale, ma in qualche modo anche più pop e virale. Per un certo periodo comunque ho provato, pur non avendo mai assistito a una sua performance, una sensazione simile a quella che secondo me prova generalmente il suo pubblico: Marina Abramovic e la sua arte hanno sempre esercitato un potere calamitante su di me, come una forza estranea che ti attira però in modo assolutamente familiare. Per un certo periodo – dicevo – sono stata in grado di avvertire solo questa forza, senza capirla fino in fondo. Poi è arrivato, nel 2012, The Artist Is Present, documentario di Matthew Akers che, seguendo la preparazione della sua retrospettiva al MoMA nel 2010, ne spiega vita e arte. Qualche anno dopo, nel 2016 e in occasione dei suoi 70 anni, invece è arrivata la sua autobiografia, scritta con l’aiuto del giornalista James Kaplan e intitolata Attraversare i Muri.

The Artist Is Present e Attraversare i Muri sono stati due strumenti molto importanti per la mia comprensione del lavoro di Marina Abramovic, ma soprattutto per comprendere la forza che quel lavoro esercita su di me. E, avendo lei sempre concepito le sue performance come una forma di dialogo intimo con il pubblico, credo che l’intento con cui ha deciso di scrivere il libro e di lasciarsi immortalare in un documentario, sia stato proprio quello di spiegarsi e di portare questo dialogo a un livello di intimità superiore. Ma partiamo dall’inizio, per non confondere chi invece non conosce per niente Marina Abramovic.

Marina Abramovic nasce a Belgrado, nel 1946, da due ex partigiani comunisti. I suoi genitori, Vojo e Danica, si erano salvati la vita a vicenda durante la Seconda Guerra Mondiale. Prima lui aveva tratto in salvo lei, che giaceva malata di tifo e tra i feriti, durante un’avanzata tedesca. Poi, dopo circa sei mesi, lei aveva donato il sangue a lui, che stava rischiando di morire per una brutta ferita. Insomma, la storia tra i genitori di Marina sembra la trama di un film e ci sono tutte le premesse perché i due inizino una vita felice: si sposano, lui viene osannato come eroe di guerra, mentre lei ottiene una buona posizione sociale, diventando direttrice del Museo di Arte e Rivoluzione di Belgrado. Ma le cose non vanno per il verso giusto: l’amore tra loro finisce presto e iniziano i litigi, forti e violenti, a cui Marina si trova ad assistere da piccola. In generale i genitori la abituano a una disciplina molto ferrea e a una grande capacità di resistenza che, vedremo, sarà fondamentale per le sue performance.
A quattordici anni Marina decide che da grande diventerà un’artista. A essere precisi, come ha sempre specificato da adulta in molte interviste, non si tratta di una decisione: ma di un’urgenza, di un bisogno, di un’ossessione che ti spinge a creare costantemente. Chiede al padre di regalarle dei colori a olio, ma lui non si limita a questo: le fa prendere anche la sua primissima lezione d’arte, di cui lei, nella sua autobiografia, parla così:

A quattordici anni chiesi a mio padre l’attrezzatura per dipingere a olio. Lui mi comprò tutto l’occorrente, e mi fissò una lezione con un suo vecchio amico partigiano, un artista che si chiamava Filipovic. Filipovic tagliò un pezzo di tela e lo posò sul pavimento. Aprì un barattolo di colla e lo rovesciò sulla tela; aggiunse un po’ di sabbia e di pigmenti di vari colori – giallo, rosso e nero. Poi ci versò sopra mezzo litro di benzina, accese un fiammifero e fece esplodere tutto. “Questo è un tramonto,” disse. E se ne andò. Ne fui molto impressionata. Aspettai che la tela carbonizzata si raffreddasse, presi dei chiodini e la appesi con cautela alla parete. Poi partii per le vacanze con la mia famiglia. Al mio ritorno era rimasto solo un mucchietto di cenere e di sabbia sul pavimento. Il tramonto non esisteva più.

Nel 1965  si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Belgrado, dove studia fino al 1972. Sono anni di sperimentazione, in cui cerca di capire quale sia il suo strumento, il suo mezzo per produrre le idee che ha in testa e da cui è ossessionata. Prova con la pittura, ma non funziona. Prova a creare oggetti e piccole statue, ma non funziona neanche quello. E così inizia a sperimentare un nuovo genere, quello della performance. La primissima esperienza in questo senso la avrà nel 1973, con Rhythm 10, performance in cui esplora la ritualità gestuale, riproponendo il gioco russo del coltello. Utilizza venti coltelli, uno per uno, facendoseli passare velocemente tra le dita aperte della mano. Ogni volta che sbaglia la punta del coltello colpisce direttamente la mano e lei si taglia. Registra i rumori e le sue grida di dolore e dopo 20 tagli riascolta e fa riascoltare al suo pubblico i suoni della performance.

Avevo sperimentato la libertà assoluta, avevo percepito il mio corpo senza limiti, senza confini. Avevo provato che quel dolore non aveva importanza, che niente aveva importanza. E questo mi ha avvelenata. È stato in quel preciso istante che ho capito di aver trovato il mio mezzo espressivo. Nessun dipinto, nessun oggetto da realizzare avrebbe potuto darmi quel genere di sensazione che sapevo di voler rivivere. Ancora e ancora e ancora

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Se questo vi sembra un esperimento autolesionista è perché ancora non avete sentito parlare della sua performance successiva, quella del 1974: Rhythm 0. Marina si trova in una galleria di Napoli, ha 28 anni, ed è lì, vicina a un tavolo, dove sono stati posizionati 70 oggetti, in grado di provocare sia piacere che dolore: c’è un bicchiere d’acqua, ad esempio, ma ci sono anche un coltello, un martello e una pistola carica. Ci sono delle istruzioni che dicono: “io sono un oggetto e tu puoi usare tutto quello che trovi qui su di me. Mi assumo io tutte le responsabilità, anche se tu dovessi decidere di uccidermi. Il tempo a tua disposizione è di sei ore”. Marina racconta che l’inizio di questa performance è stato semplice: nessuno aveva il coraggio di farle del male. Ma più il tempo passava più gli spettatori, per i quali lei era lì “presente”, iniziavano a trattarla davvero come se fosse un oggetto. C’era chi la toccava intimamente, chi le tagliava i vestiti, chi la tagliava nel vero senso della parola, chi le succhiava il sangue da questi tagli e chi le puntava la pistola alla tempia. E lei continuava a restare ferma lì, immobile, non perché non avesse paura di morire, ma perché, in nome dell’esperienza artistica e dello spazio che era riuscita a creare con il suo pubblico, aveva dichiarato a se stessa di essere disposta a morire. Finita la performance Marina rientra nella sua stanza di albergo, in lacrime, scioccata.


Sempre lo stesso anno, nel 1974, arriva anche Rhythm 5, in cui Marina esplora il potere che il dolore ha di trasformarci, non solo psicologicamente, ma anche fisicamente. Durante la performance sta vicina a una stella infuocata, si taglia le unghie e i capelli, poi butta gli scarti dentro e alla stella e alla fine ci si butta dentro anche lei, perdendo conoscenza a causa della mancanza di ossigeno. In generale gli anni compresi tra il ’74 e il ’76 sono molto prolifici. Marina sperimenta diverse forme e generi di performance e di relazione con lo spettatore.

Nel frattempo, nel 1976, lascia la Jugoslavia e si trasferisce ad Amsterdam, dove conosce e inizia a lavorare con Frank Uwe Laysiepen, un giovane artista tedesco, soprannominato Ulay. Tra i due inizia una relazione fortissima, che non è riducibile a una “semplice” storia d’amore: si amano, vivono insieme, lavorano insieme, quindi fanno performance insieme. Più avanti Marina racconterà che quell’elemento di paura e dolore delle sue prime performance con Ulay si trasforma in fiducia. Fiducia nel senso di vulnerabilità, di permettere all’altro di colpirti fino a morire.
Tra Ulay e Marina si crea un rapporto simbiotico, che va avanti per circa 12 anni. In The Artist Is Present Ulay racconta: “non ho mai avuto un rapporto con una donna, e nemmeno con un uomo, che arrivasse a quel grado di simbiosi. E dopo 12 anni non ne potevamo più.”

Sia privatamente che pubblicamente il rapporto tra Marina e Ulay rappresenta perfettamente le dinamiche tra il maschile e il femminile. A un certo punto entrambi si logorano, per ragioni diverse. Iniziano a tradirsi, in un periodo in cui stavano progettando una performance nuova e diversa da tutte le altre: avevano deciso di camminare lungo la Muraglia Cinese, e per farlo avevano dovuto chiedere i permessi per molto tempo. Per ottenerli Ulay si era recato spesso in Cina, portandosi dietro un’interprete, con la quale inizia una relazione. Lei resta incinta e lui decide di sposarla, lasciando Marina. La camminata, di tre mesi, lungo la Muraglia Cinese diventa l’ultimo epico atto della loro storia d’amore. Dice Marina a proposito “per dirci che era finita non ci siamo telefonati, come fa qualsiasi coppia normale. No, noi abbiamo deciso di camminare intorno lungo la Muraglia Cinese per dirci addio.”

Gli anni che seguono la separazione con Ulay sono molto difficili: “avevo quarant’anni, ero grassa, brutta, nessuno mi voleva. Avevo perso l’uomo che amavo e anche il mio lavoro, visto che lavoravo con lui. Non c’era più niente, solo il vuoto.”

Sono anni complicati, dicevo, che portano a una svolta espressiva, a un’evoluzione che si misura tanto nell’impatto estetico del suo lavoro quanto nel rapporto con il pubblico, che non è più pubblico, ma singolo spettatore. Per capire di cosa sto parlando però è necessario soffermarsi sul senso che Marina attribuisce alle sue performance fin dall’inizio. Dolore, paura, fiducia, vulnerabilità, ma soprattutto il limite: sono questi i concetti fondamentali per capire il suo lavoro.

Ogni artista dà una definizione diversa di performance, ma la mia spiegazione è molto semplice. Una performance, per me, è un prodotto fisico e mentale che l’artista crea in un preciso momento e in uno spazio limitato, di fronte a un pubblico. E lì, in quello spazio, avviene un dialogo. Il pubblico e l’artista costruiscono la performance insieme.

Marina ha sempre insistito sulla differenza tra la performance artistica e il teatro: laddove nel teatro è tutto finto, nella performance è tutto vero. A teatro il coltello non è un vero coltello e il sangue è ketchup, mentre nell’arte il sangue diventa il materiale e il coltello il mezzo. Nella performance si vive un’esperienza irripetibile: l’artista si sottopone al suo stesso limite, a quelle emozioni e a quegli atti di cui tutti abbiamo paura nella nostra vita quotidiana. Rischia di morire, non ha la certezza di sopravvivere: è questo che li rende così veri. Riuscendo a resistere alle proprie paure e assorbendo anche quelle del suo stesso pubblico l’artista acquisisce una nuova forma di energia e diventa specchio per il suo stesso pubblico. “Se io sono riuscita a sopravvivere a tutto questo, allora anche voi potete farcela”: il senso dell’esperienza potrebbe essere riassunto così.

Se però agli inizi della sua carriera Marina si esibisce in performance molto forti, ricche di elementi e di oggetti fisici, basate su un dialogo “di gruppo”, tra lei e un pubblico numeroso, a un certo punto le cose cambiano. L’esempio principale di questa svolta si ha con la performance del MoMA del 2010: un semplice tavolo, con due sedie messe una di fronte all’altra. Marina è rimasta seduta su una di quelle sedie per tre mesi, otto ore al giorno, ogni tanto anche dieci. Chiunque, dal pubblico, aveva la possibilità di sedersi di fronte a lei, e di restarci tutto il tempo necessario. Necessario a cosa? A sperimentare qualcosa di completamente nuovo e diverso: un rapporto a due con l’artista, basato solo sullo sguardo. Lo spettatore stava lì, in mezzo a una stanza piena di gente, al centro degli sguardi di tutti, senza alcuna possibilità di scappare se non rifugiandosi in se stesso. “Questo fa la differenza” ha detto Marina, e ha proseguito “c’è così tanta sofferenza e solitudine, ci sono così tante cose incredibili negli occhi di una persona.” Molte delle persone che in quei tre mesi si sono sedute davanti a lei hanno pianto e hanno raccontato di aver sperimentato il loro limite interiore e la fatica che costa superarlo. Durante questa performance a un certo punto è arrivato anche Ulay, che non vedeva da molto tempo. Si è seduto di fronte a lei, sono rimasti in silenzio: si sono guardati, scambiati un sorriso, delle lacrime e si sono sfiorati. La scena, carica di intensità, è stata ripresa ed è diventata presto virale.

Oggi Marina Abramovic è forse l’artista contemporanea più famosa al mondo. Ha vinto molti premi, ha una sua scuola, e lavora con giovani artisti, a cui insegna il suo metodo. La scuola si chiama MAI (Marina Abramovic Institute) e la selezione è molto dura. Appena entrano, i ragazzi, vengono abituati per alcuni giorni a digiunare, la loro disciplina e il loro sacrificio viene testato.

Essere un artista è come respirare. Nessuno si chiede se può o non può respirare, perché se non puoi allora finisce che muori. Quindi se ti svegli la mattina, e senti di avere delle idee che devi realizzare, delle ossessioni da creare. Se hai questo bisogno di creare, allora sei sicuramente un’artista. Ma questo non significa necessariamente che tu sia un buon artista

Negli ultimi anni, dopo l’esperienza del MoMA e dopo aver raggiunto una pienezza espressiva con le sue performance Marina si è concessa di provare anche il teatro. Si è esibita in uno spettacolo, a lei dedicato e intitolato Life and Death of Marina Abramovic, diretto da Bob Wilson e con la partecipazione dell’attore Willem Dafoe.

È estremamente importante uscire dalla propria comfort zone, per conoscersi fino in fondo. È così che si scopre il nuovo Io. Il fatto è che io ho voluto anche essere di ispirazione agli altri. Volevo far capire che “se posso farlo io, lo puoi fare anche tu, sei tu l’unico padrone del tuo destino”. E lo volevo dire soprattutto alle donne: “Smettila di sentirti in colpa”, cosa che noi donne facciamo così bene.

Source: freedamedia.it

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