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Non È Difficile Scegliere Da Che Parte Stare

Non È Difficile Scegliere Da Che Parte Stare
23 luglio 2018

Non è difficile scegliere da che parte stare. Tutto appare più chiaro di quanto già non lo sia, quando si legge la storia di Josefa, unica sopravvissuta al naufragio di un barcone di migranti avvenuto nei giorni scorsi nel Mediterraneo. A raccontarci di questa donna e del suo salvataggio è stata soprattutto la giornalista Annalisa Camilli di Internazionale, che si trova sulla nave della ong spagnola Open Arms.

Josefa ha quarant’anni, e viene dal Camerun. Sul suo corpo sono state trovate bruciature e segni di violenza. Aveva scelto di andarsene dal suo Paese, spiega Camilli, per sfuggire ai maltrattamenti del marito, che la picchiava perché non poteva avere figli. Martedì mattina presto Javier Filgueira, giovane volontario spagnolo che lavora a bordo della nave di Open Arms, l’ha trovata prona, aggrappata a una tavola, residuo del fondo del gommone su cui stava viaggiando. Si è buttato in acqua, sperando con tutto se stesso che fosse ancora viva e, nonostante i due giorni trascorsi in acqua e l’elevato stato di ipotermia, è riuscito a salvarla. Non c’è stato invece niente da fare per la donna e per il bambino di età compresa tra i 3 e i 5 anni, che sono stati trovati insieme a lei, morti qualche ora prima dell’arrivo dei soccorsi.

La temperatura del corpo stava scendendo così tanto che se i soccorsi avessero tardato ancora non ce l’avrebbe fatta. Come non ce l’ha fatta un bambino di circa cinque anni che è morto per ipotermia a fianco di una donna, presumibilmente sua madre. Anche lei è stata trovata morta ricurva su una tavola, la pelle delle braccia bruciata dal gasolio fuoriuscito dalle taniche del gommone su cui viaggiavano. Per loro non c’è stato niente da fare. Il corpo del bambino senza vita e quello della donna che gli è stata trovata affianco sono stati portati a bordo della Open Arms e giacciono sulla prua della nave avvolti in due sacchi bianchi.

Josefa, soccorsa in extremis tramite apposite manovre di riscaldamento, è sotto shock, e ripete in continuazione una frase: non portatemi in Libia. È confusa, non ricorda ancora molto, non sa dire chi fossero, da dove venissero o che fine abbiano fatto i suoi compagni, ma è certa di una cosa: dopo due giorni trascorsi in mare, sono stati tutti picchiati dalla guardia costiera libica che avrebbe dovuto soccorrerli, dopo aver ricevuto una segnalazione da quella italiana.

Ricostruire quanto è accaduto non è ancora facile, ma proveremo a farlo seguendo sempre le parole di Annalisa Camilli. Riccardo Gatti, portavoce di Open Arms, ha riferito di aver ascoltato, il giorno 16 luglio, una conversazione tra la guardia costiera libica e un mercantile, in cui si parlava di una segnalazione, arrivata dall’Italia, circa la presenza di due gommoni in difficoltà a 80 miglia dalla costa. I libici hanno poi detto al mercantile che sarebbero intervenuti loro. Si può quindi ipotizzare che siano intervenuti, ma non si riescono a chiarire le modalità, visto che ciò che i soccorritori di Open Arms si sono trovati davanti è stato il gommone affondato, e 3 persone di 158 che dovevano esserci a bordo, di cui una soltanto ancora in vita.

Oscar Camps, il fondatore di Open Arms, ha apertamente parlato di omissione di soccorso, riconoscendo la responsabilità tanto alla guardia costiera libica quanto al governo italiano. In uno dei suoi tweet ha scritto: “La Guardia costiera libica ha annunciato di avere intercettato una barca con 158 persone a bordo e di avere fornito assistenza medica e umanitaria. Quello che non ha detto è che ha lasciato due donne e un bambino a bordo e poi ha affondato la barca, perché le tre persone non volevano salire a bordo delle motovedette libiche. Quando siamo arrivati, abbiamo trovato una delle donne ancora in vita, ma non abbiamo potuto fare niente per salvare l’altra donna e il bambino che era morto poche ore prima. Per quanto tempo ancora dovremmo avere a che fare con gli assassini arruolati dal governo italiano per uccidere?

Dal canto suo, Matteo Salvini ha respinto le accuse, affermando invece che quanto accaduto non è altro che la conferma del fatto che chiudere i porti sia l’unico modo per ridurre il numero dei morti. Ma, come osserva Il Post, gli ultimi dati diffusi dall’UNHCR, cioè l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, dimostrerebbero esattamente il contrario, e cioè che politiche più restrittive non fanno che aumentare i rischi.

Ci sono storie di singole persone che hanno il potere di diventare universali. Era successo qualche anno fa con il piccolo Aylan, il cui corpo esanime in riva al mare era diventato simbolo di tutti i bambini morti nel tentativo di cercare una vita migliore. E sta succedendo ora con la storia di Josefa. Basta guardare una foto o leggere qualche riga per capire che non è difficile scegliere da che parte stare: apriamo i porti, restiamo umani.

Source: freedamedia.it

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