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Patti Smith, per chi la conosce e per chi ancora la deve scoprire

22 luglio 2017

Cerimonia dei Nobel 2016: Patti Smith canta al posto di Bob Dylan; si emoziona, sulle note di A Hard Rain’s a-Gonna Fall, la canzone che ha scelto per rappresentare l’amico perché «mette insieme la sua maestria di linguaggio alla Rimbaud con una profonda comprensione delle ragioni che stanno dietro la sofferenza e la resilienza umana»; sorride, si scusa, e chiede di poter riprendere a cantare.

Scrivo questo articolo dopo aver visto per la prima volta il film Dream of Life, documentario sulla sua vita, che ha cambiato totalmente la mia prospettiva su quello che pensavo fosse il mondo di una delle più grandi rocker statunitensi. Non avevo idea di tutto quello che c’era dietro la figura di Patti Smith, né di altro che non fosse la sua musica e qualche notizia sulla sua vita. Mi viene solo da dire che se si pensa che il rock sia solo urlare parole a caso al microfono, va visto; se ci si chiede cosa voglia dire essere un poeta e un artista, oggi, va visto; se non la si conosce, se la si conosce poco o molto, va visto; se non te ne frega niente di musica ma sai cosa vuol dire perdere qualcuno di importante, va visto. Se tutti i “se” del mondo bastassero ad accendere una curiosità nei confronti di qualcuno che non è esattamente conforme al nostro gusto musicale, questo documentario può forse risvegliare nuovi pensieri e nuovi immaginari. Giusto per dire che quando si parla di Patti Smith non si parla solo di musica in senso stretto.

Per me il rock’n’roll era una voce culturale rivoluzionaria, sensuale, poetica e politica per la gente, e ho avuto come la sensazione, presuntuosamente, che avessi qualcosa a che fare con tutto questo.

Dream of Life è una sorta di diario filmico diretto da Steven Sebring, che ha raccolto la sfida di raccontare la vita dell’artista, poetessa e cantante americana, registrando per 10 anni frammenti della sua vita – concerti, interviste, viaggi, suoni, immagini, rumori, conversazioni. Dettagli e visioni: ne esce un mosaico che disegna una personalità complessa ma anche molto semplice e diretta, che guarda al suo passato con dolcezza (e un po’ di malinconia) e al futuro con fiducia e forza. Un viaggio nell’America letteraria degli anni ’70, attraverso incontri con gli artisti di New York diventati compagni di avventure, gli unici cinque accordi di chitarra che ammette di saper suonare, gli oggetti di una vita che compongono la sua casa, i vestiti fatti a mano, la sua avversione per la candeggina, la testimonianza dei suoi genitori, l’impegno politico e la nascita della sua decisione di diventare artista. Il tempo passato con lei in questa incursione nella sua vita mi ha restituito un senso pieno dell’essere un’artista, in una forma che ormai facciamo fatica a riconoscere: non c’è niente di simile nell’industria musicale di oggi. La disarmante semplicità con cui parla di bellezza, amicizia, amore, morte e poesia mi ha fatto pensare a quanto rara e necessaria sia la sua arte, il suo pensiero e il suo sguardo sul mondo.

La vita è un’avventura che segue il nostro progetto, intercettato dal fato e da una serie di fortunati e sfortunati avvenimenti. Sono nata a Chicago, snodo principale d’America, durante una bufera di neve dopo la Seconda Guerra Mondiale. Mi sorella Linda arrivò poco dopo e nel 1949 ci dirigemmo a Philadelphia, la città dell’amore fraterno, dove nacque mio fratello Todd.

Queste le prime parole del documentario sulla sua vita: Patricia Lee Smith nasce a Chicago il 30 dicembre 1946. Poco dopo nasce la sorella Kimberly e racconta della sua infanzia come un periodo felice; ascolta Bob Dylan e Jim Morrison e scopre il mondo dei libri che la madre le insegnava a leggere – Il viaggio del pellegrino, Pinocchio e le poesie di Blake e Baudelaire. Dopo il diploma, comincia a lavorare in una fabbrica e rimane incinta di un ragazzo poco più giovane di lei: Patti ha 20 anni e il ragazzo 17 e quando realizzano di essere troppo giovani per crescere la bambina, Patti decide di dare la piccola in adozione. Come scriverà poi nella sua autobiografia Just Kids:

Per un momento ho pensato di morire: poi, con la stessa velocità, ho capito che tutto sarebbe andato bene. Ho capito di avere una missione e questa sensazione travolgente ha eclissato le mie paure. Sarei diventata un’artista. Avrei dimostrato il mio valore.

Nel 1967, a pochi mesi dalla nascita di sua figlia, lascia Chicago alla volta della Grande Mela, dove conosce il fotografo Robert Mapplethorpe, che definisce “l’artista della sua vita” con il quale si trasferisce due anni dopo, al Chelsea Hotel.

Da quel che ricordo ho sempre cercato di essere libera, ho fuggito i confini dell’esistenza, ho detto addio alla fabbrica, alla sala da ballo quadrata, ai frutteti sconfinati. Avevo in mente di diventare un’artista, un poeta e attraverso tale ricerca ho trovato il mio mondo e l’origine della mia voce. Davanti a grandi fogli di carta attaccati al muro, recitando Sylvia Plath, Rachel Lindsay e Oscar Brown Junior. Frustrata dall’immagine, mi misi a disegnare parole. Ritmi che correvano via dalla pagina attaccata all’intonaco; scrivere canzoni nacque dall’atto fisico di disegnare parole e più tardi, raffinando questo processo, arrivai all’esibizione, alla collaborazione con un gruppo rock.

È un periodo di grande fermento – sono gli anni ’60: studia alla Hank William, “suda” su una vecchia Gibson del ’31, lavora in una libreria e fa da modella a Robert, in un clima sociale che definisce gioioso, ma al tempo stesso pieno di malcontento. Agli inizi degli anni ’70, passa il suo tempo dipingendo, scrivendo ed esibendosi in performance artistiche. Nel ’71, scrive un dramma teatrale con Sam Shepard (scrittore e sceneggiatore con cui avrà una relazione) intitolata Cowboy Mouth e, nello stesso anno, si misura con un reading di poesie alla St Mark’s Church, nel Lower East Side. Sono presenti Andy Warhol, Sam Shepard e molti altri artisti della scena newyorkese; Lenny Kaye la accompagna con la chitarra elettrica e, come racconta in un’intervista, le reazioni sono contrastanti. C’è chi la ama e chi la odia – ma intanto, a Patti l’esperienza serve per capire quale strada intraprendere.

Le persone lo hanno amato oppure si sono scioccate da quanto potessi suonare blasfema a trattare in quel modo la poesia. Ed è stato così che ho trovato la mia strada nel rock’n’roll, attraverso le idee politiche, attraverso la mia voglia di prendere ciò che il rock mi offriva – la poesia, le idee rivoluzionarie, l’energia sessuale. Volevo iniettare un po’ di sangue nella poesia.

Si incontra con altri artisti al rock club CBGB – incluso lo scrittore William Burroughs, con cui stringe un legame molto stretto: lui sostiene il gruppo andando a tutti i loro concerti, lei sostiene lui quando beve un drink di troppo al bar El Coyote.

Quando ho scritto Horses ero in grande debito con lui, perchè l’eroe di Land era ispirato a Johnny dei Wild Boys

Comincia a incidere qualche brano: nel 1974 registra Piss Factory e l’anno successivo il Patti Smith Group incide Horses, l’album di debutto con l’Arista Records. La copertina dell’album è una foto di Mapplethorpe che ha fatto epoca – come del resto ha fatto l’album stesso: Patty Smith inaugura un nuovo stile di rock , che unisce la passionalità della sua voce e l’energia punk alla poesia. Nel 1976 rilascia un’intervista dove racconta ciò in cui crede e come cerca di sviluppare la sua arte attraverso la musica:

Al primo album seguono Radio Ethiopia e Easter, del 1978, considerato il suo maggior successo grazie al singolo Because the Night, scritto assieme a Bruce Springsteen.

Nel 1979 esce Wave, di minor successo del precedente album e decide di lasciare New York per Detroit; la sua relazione con il compagno di lunga data Allen Lanier è ormai finita e ha appena incontrato il chitarrista Fred “Sonic” Smith – a cui dedica le canzoni Dancing Barefoot (ispirata all’amore di Jeanne Hébuterne per Amedeo Modigliani) e Frederick. Si sposano all’inizio degli anni ’80 e avranno due figli: Jackson e Jesse. All’apice del successo decide di lasciare le scene per ritirarsi a vita privata; si dedica allo studio e ai viaggi, e dopo diversi anni di silenzio ritorna in studio con l’amico pianista Richard Sohl e nel 1989 incide Dream of Life, con una foto di copertina scattata sempre dall’immancabile Mapplethorpe. L’incredibile successo del primo singolo dell’album, People have the Power, segna il ritorno della cantante sulle scene; grazie alle riflessioni di questi nove anni di silenzio, appena riprende voce stupisce il mondo con un inno al coraggio e alla speranza di avere il potere di cambiare le cose, per il meglio.

La gente ha il potere di sognare, di dettare le regole, di lottare per cacciare dal mondo i folli

La foto di copertina dell’amato Mapplethorpe segna però l’ultima collaborazione tra i due: il fotografo infatti, morirà l’anno successivo per complicazioni dovute all’AIDS, mentre pochi anni dopo, nel 1991, Sohl muore per una cardiopatia reumatica. A queste due importanti perdite per Patti si aggiunge quella del marito Fred nel 1994, e del fratello Todd un mese dopo. Nel documentario, ricorda le parole del poeta e amico Allen Ginsberg, per la perdita del marito: “non trattenere l’anima dei defunti e continua la celebrazione della tua vita.” Ma sono anni incredibilmente difficili per Patti e molti dei suoi amici di una vita cercano di starle vicino e darle una mano; Bob Dylan le chiede di suonare live con lui e Michael Stipe dei REM le trova casa a New York, quando si trasferisce coi figli Jackson e Jesse, nel 1996.

Qui ho scoperto che dentro di me c’è un mondo di favole. Quando vivevo nel New Jersey, non c’era tempo per i sogni, e la vita era più semplice. Nessuno ti infastidiva, non ti rapinavano né cercavano di palparti il sedere, ma non c’era altro. Non c’era occasione di crescita, non c’era la possibilità di essere davvero distrutti o di sbocciare. Si poteva vivere e basta. Questo piace ad alcune persone, ma io ho sempre sentito qualcosa di diverso in me. sapevo che c’era qualcosa in me di pronto a sbocciare. Magari mi avrebbe rovinato e mi avrebbe fatto sentire uno schifo, ma almeno sarebbe uscita da me. E non poteva accadere altrove.

Assieme a molti altri amici del mondo della musica, a metà degli anni ’90 torna in studio e registra tre album che parlano di attualità e del dolore del mondo: Gone Again, Peace and Noise e Gung Ho, nel 2000, ispirato alla figura del rivoluzionario e politico vietnamita Ho Chi Minh; con le canzoni 1959 e Glitter in Their Eyes viene nominata ai Grammy Award per Best Female Rock Vocal Performance. Tra i tanti riconoscimenti che ha ricevuto per la sua lunga carriera nella musica, è stata nominata Commendatore dell’Ordine delle Arti e delle Lettere dal Ministero della Cultura francese, nel 2005, ed è entrata a far parte della Rock and Roll Hall of Fame nel marzo del 2007. Il Rolling Stone la mette al quarantasettesimo posto, nella classifica dei 100 migliori artisti di sempre. Fa uscire altri tre album di inediti – Trampin’, Twelve e Banga, del 2012 – e diverse raccolte che ne riassumono il percorso artistico. Ma oltre alla sua musica più recente è interessante conoscerla attraverso le interviste, dove parla di rock, di arte ma soprattutto di impegno politico e del futuro; quando parla nel ’97 dello stato della musica rock, ad esempio, riporta il problema della sua musica di trovare spazio in radio perché affronta problemi di cui la gente non vuole parlare – come l’ambiente, le guerre e l’aids.

Il suo lavoro, sembra abbastanza chiaro, non cederà mai al compromesso commerciale e si può star sicuri che ogni volta che si ascolta un disco di Patti Smith, si avrà uno sguardo sul mondo scevro dalla furbizia di molti meccanismi dell’industria musicale. Attraverso il suo stile unico e la sua arte ha creato un nuovo immaginario dell’essere donna e artista, poetessa punk e cantante rock – per quanto detesti essere etichettata – celebrità e attivista, con una grazia che ha incoraggiato – e incoraggia ancora –  a essere sempre e “semplicemente” se stessi.

Rock? Punk? È solo la pigrizia dei giornalisti che ha bisogno di mettermi addosso un’’etichetta, io sono sempre stata indipendente, fuori dagli schemi, scrivo e canto solo quello che sento. Canto, ma sono anche una madre, dipingo, scrivo poesie, a casa ascolto Wagner.

Ci ha esortati a scoprire il potere che abbiamo di cambiare la nostra vita e la società, senza provare vergogna di quello che siamo o che possediamo – tanto o poco che sia. Per concludere, prima di avvicinarsi alla sua musica, una piccola riflessione di qualche anno fa sulla nostra generazione e le sue possibilità, che merita di essere ascoltata:

Source: freedamedia.it

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