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Quando e Perché Capita che i Medici Sottovalutino i Dolori Femminili

2 ottobre 2017

Circa 5 anni fa mi capitò di sentire per molti giorni di seguito un dolore intenso al basso ventre. Inizialmente pensai ai crampi mestruali, ma avevo 25 anni e conoscevo il mio ciclo, mi accorsi in fretta che non si trattava di quel tipo di dolore. Una sera stetti particolarmente male, non riuscivo prima a stare in piedi, poi neanche seduta, potevo solo accartocciarmi e urlare. In famiglia io sono quella che se può evita l’anestesia anche dal dentista, a 8 anni mi trapassai da parte a parte la pelle sotto il labbro con i denti e non emisi un fiato neanche mentre mi cucivano. Non so se la mia soglia del dolore sia alta, sospetto più che altro di essere troppo orgogliosa per mostrarmi sofferente salvo casi seri, ma rimane il fatto che vedendomi così distrutta i miei si preoccuparono e mi portarono immediatamente dalla guardia medica. Che a stento mi visitò e mi disse: “Signorina, non è che ha il ciclo?”. Come se io potessi non accorgermi di avere il ciclo. Dissi di no. “Si vede che le deve venire, l’ha preso un Buscofen?”.
No, l’avevo già preso due giorni fa per lo stesso motivo e non era servito a niente, inoltre quelli non erano i miei soliti dolori mestruali, ne soffrivo pochissimo e mai di quel tipo. Come se non avessi detto niente, lui rispose: “Signorina, se non lo sa lei come funzionano le sue cose, io non so cosa dirle”. Aggiunse qualcosa sul fatto che invecchiando i dolori cambiano e mi rimandò a casa con un Buscofen e il consiglio geniale, quasi avanguardista, di usare una borsa dell’acqua calda.
La sera dopo ero al pronto soccorso con i calcoli renali.

La mia è una storia piccola, solitamente non le dò peso. Ho trovato un pessimo medico come ho trovato anche medici ottimi, capita. Magari i miei sintomi erano effettivamente fraintendibili, chissà, anche se stiamo comunque parlando di banali calcoli, non di un raro morbo contraibile soltanto pungendosi il dito col fuso di un arcolaio nel giorno del sedicesimo compleanno. Non ho mai considerato, insomma, che anche il mio piccolo caso potesse rientrare in una statistica precisa, cioè quella che dice che i medici tendono a prendere meno sul serio il dolore femminile.

I dati e i pregiudizi sul dolore delle donne

Prima che parta un coro di “non tutti i medici”: certo che no, ci mancherebbe altro. Se io dovessi basarmi soltanto sulla mia esperienza, parlerei di 1 medico su 10. Qui però non si parla di singole esperienze soggettive, ma di dati oggettivi.

Una ricerca condotta dall’Università del Maryland, negli Stati Uniti, ha dimostrato che nei pronto soccorsi americani esiste una disparità evidente tra la velocità con cui vengono trattati uomini e donne che lamentano forti dolori. Nel caso specifico del dolore addominale acuto, a parità di sintomi, gli uomini ricevono analgesici dopo 49 minuti, le donne dopo 65. Già in una ricerca del 1994, intitolata Research in Nursing and Health, fu riscontrato che dopo la stessa operazione di chirurgia addominale i medici prescrivevano meno antidolorifici alle donne dai 55 anni in su rispetto agli uomini nello stesso gruppo di età, mentre le infermiere riservavano lo stesso trattamento a tutte le donne tra i 25 e 54 anni – il tutto, ovviamente, a condizioni fisiche equiparabili.

Una collega mi ha raccontato di essere caduta dagli scii, una volta, e di essersi fatta visitare per un “dolore atroce” in seguito al quale le era salita la febbre alta. Secondo il medico del pronto soccorso, che pur aveva la sua lastra in mano, si trattava di ipocondria, e sarebbe bastato applicare dell’arnica sulla gamba. In realtà si trattava di una frattura scomposta a tibia e perone, e la mia collega ha portato il gesso per 7 mesi.

Purtroppo storie del genere non sono rare. L’Università della Pennsylvania ha dimostrato che le donne hanno tra il 13 e il 25% di possibilità in meno rispetto agli uomini di farsi prescrivere degli oppiacei contro il dolore, perché i loro sintomi vengono spesso considerati “mentali”, “esagerati”, “irrealistici”, “causati dallo stress”.

Nel corso della ricerca Women With Pain è emerso che per le donne che soffrono di dolore cronico è più probabile ricevere una diagnosi di disturbo psicosomatico, e quindi una terapia (inutile) basata sugli psicofarmaci. Secondo il New England Journal of Medicine, lo stesso capita anche alle donne malate di cancro. A 300 infermiere è stato sottoposto un test in cui dovevano osservare delle tipologie di pazienti in alcune vignette, provando a stimare il tempo che avrebbero dedicato nella realtà a ciascuno di loro. Tra pazienti con uguali sintomi e pregressi medici, alle donne veniva stimato quasi sempre un tempo notevolmente minore.

Per quale motivo succedo questo? Non si tratta di cattiveria gratuita, ovviamente, ma del protrarsi di alcune falle nel sistema della ricerca nel corso degli anni. I soggetti di ricerca medica tendevano, fino a non molto tempo fa (adesso si cerca di differenziare), a essere giovani uomini bianchi. Il problema, però, è che molte malattie si manifestano con sintomi diversi tra le donne, che non vedono riconoscere il proprio dolore finché non “dimostrano di soffrire come un uomo” Questo fenomeno è stato osservato per la prima volta nel 1991 dalla cardiologa Bernardine Healy, che l’ha battezzato Yentl Syndrome.

Esistono anche ragioni culturali, però, che affondano le radici negli antichi stereotipi duri a morire. Da una parte si pensa che le donne siano più sensibili e instabili, quindi propense a isteria, lamentele, ipocondria e vittimismo – in poche parole, a lamentarsi per niente.  Dall’altra c’è la convinzione, diametralmente opposta, che le donne sopportino meglio il dolore, e che quindi non serva trattarle quanto gli uomini. Uno studio del 2001 ha dimostrato che questa credenza era ancora molto diffusa tra i medici, secondo i quali le donne sopportano meglio il dolore perché “naturalmente predisposte” al parto. Quando in realtà è più probabile che di solito sopportiamo in silenzio perché la società ci insegna che lamentarci è da rompiscatole.

La violenza ostetrica

Esiste anche un’altra forma di discriminazione sanitaria che colpisce le donne, e si tratta della violenza ostetrica. In Italia se ne sta occupando da qualche anno con grande impegno la pagina #bastatacere: le madri hanno una voce, che ha raccolto centinaia di testimonianze di donne che hanno subito comportamenti lesivi, fisici e psicologici, durante il parto. In seguito alla campagna di sensibilizzazione il Doxa ha svolto un’indagine che è stata recentemente in grado di fornire i dati reali della violenza ostetrica nel nostro Paese, riassunti nell’infografica:

infografica doxa

Un milione di donne affermano di essere state vittime di violenza ostetrica al primo parto, e il 6% di loro ha scelto per questo di non avere altri figli. In particolare:

L’indagine ha rilevato che per 4 donne su 10 (41%) l’assistenza al parto è stata per certi aspetti lesiva della propria dignità e integrità psicofisica. La principale esperienza negativa vissuta durante la fase del parto è la pratica dell’episiotomia, subita da oltre la metà (54%) delle mamme intervistate. Un tempo considerata un aiuto alla donna per agevolare l’espulsione del bambino, oggi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la definisce una pratica «dannosa, tranne in rari casi». L’episiotomia è, a tutti gli effetti, un intervento chirurgico che consiste nel taglio della vagina e del perineo per allargare il canale del parto nella fase espulsiva. Rispetto alle lacerazioni naturali che spesso si verificano durante il parto, tale operazione necessita di tempi più lunghi per il recupero con rischi anche di infezioni ed emorragie.

Anche in questo caso – anzi, soprattutto in questo caso – il dolore delle donne è stato a lungo taciuto. Siccome è naturale soffrire durante il parto, se ci lamentiamo siamo noi a essere sciocche e infantili, giusto? Meglio stare zitte, per non peggiorare la situazione, e lasciare che la nostra sofferenza passi in secondo piano.

Perché il dolore delle donne non venga più trascurato è necessario prendere atto del problema, come si sta cercando di fare da anni, e cambiare mentalità. Noi nel frattempo possiamo iniziare ad imporci, e chi se ne importa se verremo ritenute rompiscatole. Meglio irritanti e in salute, che accondiscendenti e sofferenti.

Source: freedamedia.it

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