Il WebBlog di ...

Per Un Calcio Femminile e Universale

Per Un Calcio Femminile e Universale
16 giugno 2018

Questa sera le ragazze della Nazionale italiana, giocheranno la partita che potrebbe portarle direttamente ai Mondiali di calcio femminile, che si terranno il prossimo anno, in Francia. Lo faranno a pochi giorni dall’inizio di quegli stessi Mondiali da cui invece, per la prima volta dopo moltissimo tempo, la nazionale maschile sarà esclusa. Anche chi non segue attivamente il calcio ci è rimasto male quando, a novembre, l’Italia ha pareggiato contro la Svezia, perdendo la possibilità di qualificarsi ai Mondiali. Eppure, questa sconfitta, unita ai successi della nazionale femminile, sta avendo un risvolto importante e inaspettato: quello di portare l’attenzione sul calcio femminile, sulla sua storia, e su quelle delle ragazze che sognano di fare carriera in un mondo che è stato a lungo considerato solo ed esclusivamente maschile.

Del calcio femminile si è iniziato a parlare sempre di più negli ultimi tempi, ma, come spesso accade con le “versioni” femminili degli sport, si tratta ancora di un terreno parzialmente sconosciuto, distante dal grande pubblico e interessato da diversi pregiudizi. Per spiegare meglio questo mondo affascinante Moris Gasparri, ricercatore sportivo, e Michele Uva, Direttore Generale FIGC e Vicepresidente UEFA, hanno scritto un bel libro, recentemente pubblicato da Giunti Editore: Campionesse. Storie vincenti del calcio femminile. In occasione della partita di stasera, ci siamo messi in contatto con Moris Gasparri, per fargli alcune domande.

D: Moris, tu hai studiato filosofia, quindi vieni da un mondo che tradizionalmente viene considerato lontano da quello dello sport. Quando e come hai iniziato a fare ricerca su tematiche sportive?

R: Io sono cresciuto con due passioni divoranti, quella per i libri e quella per lo sport, non solo il calcio, ma tutti, sia al maschile che al femminile. Nell’estate del 2011 ho conosciuto Michele Uva e Mauro Berruto, un grande manager sportivo e un grande allenatore, entrambi con grande sensibilità per la cultura. Io al tempo mi occupavo di studi storico-politici, e incontrando loro ho capito che il mio approccio poteva funzionare anche per analizzare in maniera innovativa le dinamiche dello sport globale, e mi ci sono gettato a capofitto. Da lì è partito un percorso che poi dal 2014 è divenuto pienamente professionale.

D: Due uomini e un libro sulle donne: partendo dal tuo incontro con Michele Uva, ci racconti come è nata l’idea di Campionesse?

R: È stato facile trovarci: io mi sono appassionato al calcio femminile dopo aver letto dei libri usciti negli Stati Uniti. In particolare ero rimasto colpito dagli scenari che lo vedevano come lo sport più praticato al mondo dalle donne. Lui nel 2011 era stato in Germania a studiare la dimensione organizzativa dei Mondiali, evento dal successo di pubblico straordinario, e nei primi anni Novanta aveva lavorato nel volley femminile. Negli anni successivi io ho continuato a studiare in profondità quanto stava accadendo all’estero, lui invece ha lavorato al piano di riforme promosso dalla federcalcio nel 2015, per dare finalmente visibilità e considerazione al calcio femminile italiano. A inizio 2017 gli ho proposto l’idea del libro, per raccontare al pubblico tutti questi cambiamenti. Quello del calcio femminile in Italia è stato a lungo un mondo talmente marginalizzato, che mancava di parole, narrazioni, storie, modelli. Ecco perché secondo noi serviva questo libro.

D: Nel libro si parla di un calcio che è finalmente diventato universale: possiamo essere sicuri che questo cambiamento sia duraturo?

R: Per quanto riguarda le barriere che per decenni hanno ostacolato la possibilità della pratica per tante bambine e ragazze, soprattutto in Europa ed in particolare in quella mediterranea, credo proprio di sì. Il calcio diventerà sempre più universale, di tutti e di tutte. In Italia questo ha anche un altro significato: tra i 14 ed i 25 anni d’età le ragazze hanno tassi di pratica sportiva inferiori del 15-20% rispetto ai ragazzi. La pratica sportiva non è solo un passatempo, crea competenze formative valide nella vita a livello generale. Il calcio può e deve contribuire a ridurre e un giorno eliminare questo gap. Per quanto riguarda invece il calcio come spettacolo mediatico quello femminile ha ancora tanti passi da compiere per crescere e trovare una sua sostenibilità, anche di tipo economico, ma c’è ottimismo.

D: La storia del calcio femminile è costellata di pregiudizi mascherati da verità medico-scientifiche, come ad esempio alcune convinzioni circa la dannosità dello sport per le capacità riproduttive della donna: a che punto siamo con l’abbattimento di questi stereotipi?

R: Per quanto riguarda questo tipo di pregiudizi parliamo di un passato ormai pienamente superato. Il libro è un piccolo “museo degli orrori” in tal senso, addirittura in Giappone agli inizi degli anni Settanta vietarono un fondamentale del gioco come lo stop di petto perché era considerato pericoloso per la salute delle donne.

D: Il libro è diviso in tre parti, e la seconda è dedicata alle storie delle grandi icone del calcio femminile: tra queste, qual è la storia che ti ha colpito di più?

R: Difficile scegliere, sono legato a tutte per motivi differenti, sono storie di vita e di sport bellissime. In termini di emozioni dico però quella delle “Nadeshiko”, le ragazze della nazionale giapponese che nel 2011 vinsero a sorpresa la Coppa del Mondo in Germania (prima ed unica volta di una nazione asiatica nella storia del calcio maschile e femminile), con un destino strettamente intrecciato alla triplice tragedia del terremoto, dello tsunami e di Fukushima. Sembra una storia uscita da un grande romanzo.

D: Ad oggi, una ragazza giovane che vuole giocare a calcio a livello agonistico è spesso costretta a spostarsi dalla sua città o dal suo paese, perché le squadre sono ancora poche; davanti a un ostacolo del genere, secondo te quale potrebbe essere la soluzione migliore? Più squadre femminili giovanili, oppure una universalizzazione del calcio femminile e quindi lo sdoganamento di squadre miste professionali, almeno fino a una certa età?

R: In Italia abbiamo tredicimila società maschili di calcio dilettantistico distribuite su tutto il territorio. Adesso tocca a loro aprire le porte a bambine e ragazze, come hanno fatto in questi anni, per via di obblighi federali, le squadre maschili di serie di A, B e Legapro. È questo il modo per aumentare in maniera significativa i numeri delle tesserate, anche perché queste società in molti casi hanno già strutture e organizzazione, aspetto decisivo. Questo beneficia anche le società femminili di tradizione, che possono diventare dei punti di riferimento territoriali. Ovviamente serve un cambiamento di mentalità alla base, non bastano la Juventus e la Fiorentina da sole. Oltre alle ragioni culturali c’è poi una questione legata al calo demografico strutturale della popolazione italiana. Il mondo del calcio o apre alla parte femminile della società o continuerà a perdere tesserati. Sul calcio misto, è sicuramente una soluzione da praticare fino ai 14 anni di età. Stimola la crescita tecnica delle calciatrici, ed è anche un’opportunità di educazione culturale per entrambi i sessi. Una frontiera del “calcio misto” è invece quella ricreativa, delle tante partitelle di calcetto e calciotto, per la felicità dei gestori d’impianti:)

D: Nel libro viene sollevata una questione, che accomuna un po’ tutte le versioni femminili degli sport, vale a dire l’idea che uomini e donne abbiano una fisicità diversa e che quindi, per questo, potrebbe essere sensato pensare a un calcio differente, più adeguato alle peculiarità femminili. Ci parli un po’ di questo aspetto?

R: Le partite dei primi Mondiali di calcio femminile disputati in Cina nel 1991 vennero giocate con un pallone più piccolo e tempo ridotto, anche qui per i motivi di tutela della salute di cui abbiamo parlato sopra. L’allora capitana degli Stati Uniti, April Heinrichs, commentò con sarcasmo dicendo che “i dirigenti della Fifa avevano paura che con dieci minuti in più ci sarebbero scese le ovaie”. Tuttavia oggi sono le televisioni che dettano l’agenda dello sport di vertice, ed avere tempi di gioco leggermente ridotti per evitare i cali atletici delle fasi finali potrebbe essere un’idea per favorire la spettacolarità. In fondo nella pallavolo ci sono reti più basse, nell’atletica idem per gli ostacoli. È una logica completamente diversa da quella dei pregiudizi paternalistici del passato, serve per valorizzare meglio il prodotto. Ma siamo nel campo delle ipotesi, e probabilmente la crescita degli standard tecnici ed atletici del calcio femminile farà decadere queste ipotesi.

D: In che modo Instragram e YouTube stanno favorendo l’universalizzazione del calcio femminile?

R: In un modo direi decisivo. Il calcio femminile non ha mai avuto finora un grande peso televisivo, ancora oggi fatica a entrare nei palinsesti. YouTube è stata la prima piattaforma per ammirare le giocate delle grandi campionesse, soprattutto quelle della brasiliana Marta, e oggi quelle di Marozsan, di Tobin Heath, di Lieke Martens o della nostra Barbara Bonansea. Instagram invece ha dato un’immagine pubblica alle calciatrici, in passato non esisteva l’idea delle donne calciatrici di professione.

D: Dopo molto tempo quest’anno l’Italia maschile non si è qualificata ai mondiali, mentre l’Italia femminile potrebbe ancora farcela. Sicuramente questo avvenimento ha contribuito a risollevare il discorso sul calcio femminile negli ultimi tempi: cosa possiamo fare per renderlo ancora più mainstream?

R: Intanto agguantare quest’agognata qualificazione. Sarebbe un premio grande per ragazze sportivamente cresciute nel periodo dei mancati investimenti e della mancata considerazione. Ci sarebbe una grande visibilità per tutto il movimento. Poi avere un campionato di successo, che possa anche avere una copertura televisiva. Decisivi sono gli investimenti dei grandi club. In futuro non diremo più club professionistici maschili, ma club universali, che hanno al loro interno una sezione maschile ed una femminile. La Juventus sta tracciando con forza questa direzione.

D: Negli ultimi anni le donne si sono avvicinate sempre di più al calcio maschile, ma non a quello femminile: cosa si può fare per migliorare questa situazione?

R: Intanto serve una crescita numerica delle tesserate. Quando invece delle attuali 25 mila ne avremo 100 mila o 200 mila ci sarà una base di pubblico diversa. Ogni nuova calciatrice poi porta con sé famiglie e amici. Comunque non ne farei una distinzione così marcata tra generi. Il calcio femminile è bello per tutti in senso universale, è un mondo ricco di valori e cultura, è lo sport come dovrebbe essere.

Source: freedamedia.it

Altri articoli dalla stessa categoria

Commenti