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Quando Si Smette Di Piangere Davanti All’Armadio?

19 ottobre 2017

Parlo spesso con le amiche delle crisi nervose che avevamo davanti all’armadio quando eravamo teenager, quando anche andare al pub di provincia diventava una questione di vita di morte. Me le ricordo ancora quelle lunghe chat su MSN, tutte gravitavano intorno a una sola domanda:

MA TU COSA TI METTI?

Panico. L’armadio era il nostro inferno privato, un mostro forgiato tra fiamme e fuoco capace di inghiottire e trasformare tutto quello che compravamo e che pensavamo ci avrebbe fatto risultare carine.
Che fine ha fatto il top sexy che mi sono comprata la scorsa settimana? Perché al suo posto c’è questo straccio pieno di rouches e sbuffi che mi fa sembrare la sorella scema e frivola di Lady Oscar? Scusa potente armadio, che cosa ne hai fatto di quell’unico paio di jeans che non mi segna in vita? Oh sacro armadio, perché dalle tue ante escono solo i pantaloni marroni che mi ha comprato mia mamma al negozio Taglie Forti & Altre Umiliazioni?

Per tutti gli anni dell’adolescenza, ogni sabato, si consumava la stessa tragedia: io in mutande e reggiseno, in lacrime davanti alla magnificenza e alla cattiveria di un armadio e di uno specchio che non mi restituivano mai l’immagine della ragazza che avevo in mente. Da lì partivano una serie di azioni che vi andrò sommariamente a descrivere: io che mi butto sul letto e inizio a piangere, io che ascolto a massimo volume gli Smashing Pumpkins per fare sapere a tutti che stavo vivendo una dramma emotivo, io che vado a lamentarmi da mia mamma, io che litigo con mia mamma perché si è permessa di dire “Perché non metti una maglia e un pantalone?”. Tu dimmi se puoi dire a una teenager di indossare una maglia e un pantalone. È come dire a un affamato “Ehi, hai mai pensato di nutrirti?”.
Dopo il momento di crisi solitaria arrivava il confronto con le amiche, loro, il nostro tutto. Tutte provavamo la stessa agonia, tutte tranne la bellissima del gruppo, ma in qualche modo è giusto che una buona genetica affermi la sua superiorità.
C’era quella che si vedeva sempre grassa, chi detesteva le sue cosce, chi pregava per un miracolo tette, chi si truccava e struccava per due ore di fila.

Nell’anno dei nostri 16 anni ci siamo comprate tutte lo stesso paio di Levis, un modello storico riportato in voga con una campagna il cui sotto testo suonava più o meno così: se non ce l’hai sei una sfigata. Provato, comprato, indossato.
Era il nostro pantalone sacro, morbido sulle gambe, cavallo più basso dei soliti jeans, un’ode al non essere femminili. Mi stava malissimo.
Erano i jeans del sabato sera, degli avvenimenti importanti, dei primi drammi sentimentali e delle prime feste casalinghe con l’alcool. Li mettevamo così spesso che io e la mia migliore amica li avevamo ironicamente soprannominati “i jeans nuovi.”

“Cosa ti metti per la festa di Andrea?”
“Ma pensavo il top quello nero e…”
“E i jeans nuovi?”
“Bravissima.”

Dai jeans nuovi sono passata al non voler uscire senza tacchi. Qualunque fosse la destinazione – pub, centro sociale, cena di classe, grigliata di pasquetta – avrei preferito morire piuttosto che uscire senza tacchi. C’è stata anche la fase delle scollature, non importa quanto nevicasse o facesse freddo, tutti dovevano sapere che avevo la quarta, tutti! Così sotto il cappotto non indossavo mai caldi e pesanti maglioni, ma maglioncini scollati. Ho sofferto di sindrome da crisi acuta davanti all’armadio fino ai miei 20 anni quando – in qualche modo – corpo e mente hanno intrapreso un lungo cammino verso la pace interiore.

Oggi, quando parliamo delle nostre crisi davanti all’armadio, siamo tutte d’accordo nel dire che i nostri amici maschi non hanno mai provato una cosa simile. Nessuno è mai venuto da noi a dirci “questi boxer mi fanno un culo migliore?”. La frase “sono in ritardo perché non so cosa mettermi” proprio non rientrava nel loro vocabolario. Maschi e femmine della compagnia vivevano il sabato sera in maniera diversa: per noi era il momento di massima fioritura, per loro era liberarsi dal pensiero della prof di latino e – probabilmente – presentarsi con la T-shirt con cui erano già andati all’allenamento di calcio. Era sbagliato quello che facevamo? La crisi davanti all’armadio è un qualcosa che si subisce o piuttosto un momento di formazione? Ancora oggi non so rispondere, per esempio dovrei chiedere scusa per i ritardi fatti perché non sapevo cosa mettere? Oppure difendere la Elena teenager perché ha sempre avuto la forza di combattere per sentirsi a suo agio con i vestiti che indossava?

Se c’è una cosa che ho imparato della vita adulta è che non esiste un momento di svolta dove da irrisolta diventi risolta. Esiste una zona grigia ed è quella dove accadono le cose. Non è che abbiamo smesso di piangere davanti all’armadio, così da un dì all’altro, perché i nostri ormoni si sono stabilizzati. Piuttosto abbiamo iniziato a preoccuparcene molto meno, complice il fatto che più vai avanti più sei sicura del tuo stile e del tuo corpo o del fatto che abbiamo capito che i posti o le persone che frequentiamo non ci giudicheranno per un outfit sbagliato.
Non mancano le volte in cui ancora oggi rimango in mutande e reggiseno davanti all’armadio mentre penso a cosa mettermi. Mi succede quando vengo invitata a una festa dove conosco pochissime persone oppure in ambienti che non ho mai frequentato. È la paura dell’ignoto che mi fa retrocedere alla versione teen di me stessa. Come al solito, quello che mi divide dal terribile fantasma della me teenager è l’esperienza: non ho intenzione di piangere davanti ai miei vestiti e al posto di ascoltare gli Smashing Pumpkins preferisco prepararmi con qualche hit motivazionale di Beyoncé.

Source: freedamedia.it

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