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Storia di un dipinto sulla femminilità: Giuditta I di Klimt

18 giugno 2017

Il Belvedere di Vienna è un posto particolare. A una vista mozzafiato mescola l’esposizione di molte di quelle opere d’arte che, in un modo o nell’altro, ci sembra di conoscere da sempre. Parlo soprattutto di dipinti, così famosi, da avere una duplice esposizione: in una stanza l’originale e nell’altra una copia davanti a cui ci si possono fare i selfie. Non sto scherzando, è così. Per Il Bacio di Klimt, ad esempio, è stato allestito uno spazio selfie quasi più bello del luogo in cui è esposto l’originale.

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Posizionato esattamente di fronte al Bacio, dal lato opposto di una stanza rettangolare, si trova invece un altro quadro famoso, molto più piccolo del Bacio, ma esteticamente più potente: la prima versione di Giuditta, realizzata da Klimt nel 1901. Dico la prima perché a conti fatti esistono tre dipinti di Klimt su Giuditta: il primo è quello di cui stiamo parlando, il secondo è una sua copia che si trova a Ostrava e il terzo è una versione completamente diversa, realizzata nel 1909. Ma chi è Giuditta?

Giuditta è un personaggio biblico, tratto dal libro omonimo contenuto nella Bibbia cristiana cattolica e non accolto, invece, nella Bibbia ebraica. Se Giuditta è tra i personaggi biblici più rappresentati nella storia dell’arte un motivo c’è: da qualsiasi punto di vista la si guardi, infatti, la sua storia è una parabola moderna sulla forza della femminilità e la possibilità che ogni donna ha di lottare contro la prevaricazione e la violenza. Ma partiamo dall’inizio, per chi non conosce la storia.
Siamo nel regno del re assiro Nabucodonosor, che affida a uno dei suoi generali più valorosi, Oloferne, la campagna di guerra d’occidente. Durante questa campagna Oloferne si trova a dover affrontare il popolo di Israele, famoso per essere invincibile, a patto che non avesse peccato contro Dio. Nonostante ciò gli assiri riescono ad avere la meglio, al punto tale che nel giro di 34 giorni gli israeliti sono decisi ad arrendersi. Solo Ozia, il loro capo, riesce a convincerli ad aspettare altri cinque giorni prima di dichiararsi sconfitti. In questo contesto entra in gioco Giuditta, una giovane donna, vedova, oltremodo intelligente, bella e a cui il marito aveva lasciato in eredità numerose ricchezze.

Giuditta convoca l’assemblea degli anziani, li rimprovera accusandoli di avere poca fede e comunica loro l’intenzione di prendere in mano lei la situazione. Si veste con i suoi abiti migliori, si ricopre d’oro e di doni e va da Oloferne, facendogli credere di essere pronta a tradire i suoi per aiutarlo. Così, Giuditta promette a Oloferne di rivelargli tutti i peccati del suo popolo, l’arma principale per garantirgli la vittoria, e si fa ospitare da lui. Dopo alcuni giorni Oloferne la invita a un banchetto, convinto anche di potersi accoppiare con lei. Beve troppo, è confuso, e mentre si trova in questo stato Giuditta gli ruba la scimitarra, invoca Dio, e con due colpi gli taglia la testa, liberando il suo popolo.

Fermatasi presso il divano di lui, disse in cuor suo: «Signore, Dio d’ogni potenza, guarda propizio in quest’ora all’opera delle mie mani per l’esaltazione di Gerusalemme. È venuto il momento di pensare alla tua eredità e di far riuscire il mio piano per la rovina dei nemici che sono insorti contro di noi». Avvicinatasi alla colonna del letto che era dalla parte del capo di Oloferne, ne staccò la scimitarra di lui; poi, accostatasi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma e disse: «Dammi forza, Signore Dio d’Israele, in questo momento». E con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa.

Passa i successivi anni della sua vita (vivrà fino a 105 anni) libera e rispettata da tutti, rifiutando di risposarsi un’altra volta.

Senza volerne fare chissà quale esegesi, la potenza della storia di Giuditta è evidente. In un’epoca e in una società in cui le donne non venivano considerate perché il loro ruolo era inesistente e fortemente subordinato a quello maschile, Giuditta, donna sola, pungola gli anziani saggi del suo popolo, ormai pronti alla sconfitta, e ne salva lei le sorti. Chiaramente la tattica della seduzione, così come il gesto della decapitazione rimandano a un certo modo di intendere il potere femminile: il fascino dato dalla bellezza fisica, l’intelligenza e l’astuzia del tradimento, della vendetta strategica e non impulsiva. Si può anche non essere d’accordo con questa visione, ma bisogna ammettere che nel contesto in cui viene proposta è assolutamente dirompente e inaspettata. Non solo, si può anche non essere d’accordo con questa visione, ma di fatto non la si può negare, perché, come già abbiamo detto diverse volte, non esiste un solo modo di intendere la femminilità. E, tra le varie interpretazioni, quella della donna che con la sua capacità persuasiva e deduttiva riesce a salvare il mondo, ha un suo indubbio fascino e una sua verità. “My persuasion can build a nation”, cantava Beyoncé solo qualche anno fa. E l’idea era esattamente questa.

Ora, la Giuditta di Klimt, olio su tela, 84X42 centimetri è un’opera relativamente piccola rispetto alle altre esposte al Belvedere di Vienna, eppure, per dirompenza, le batte tutte, proprio perché rappresenta benissimo questa idea di femminilità. Anzi, in un certo senso la rappresenta anche in modo più puro, perché la testa di Oloferne, a differenza di tutte le altre rappresentazioni artistiche della scena, è relegata ai margini. Come a dire che, non importa cosa ha fatto Giuditta, il fatto di aver tagliato la testa al suo nemico, uomo, non conta: quello che conta è la sua potenza, il potere della sua femminilità. Un elemento, questo, che nel quadro di Klimt pervade ogni singolo millimentro della tela, arrivando a includere perfino la cornice, realizzata in legno scabro dal fratello di Klimt, Georg, e dorata in modo quasi ipnotico. Quando l’ho vista per un attimo ho pensato che fosse quasi più bella del suo contenuto.
Giuditta è qui raffigurata a mezzo busto, coperta da una veste trasparente che ne lascia intravedere un seno e vedere completamente l’altro. Il suo corpo è androgino così come lo è il suo viso, caratterizzato da lineamenti “duri” e ben definiti. A guardarla bene da vicino ci si rende conto di una specie di gioco di piani: la parte nuda del suo corpo è bidimensionale, mentre quella coperta dalle vesti assume quasi una tridimensionalità. Il volto di Giuditta non è inventato, ma è quello di Adele Bloch-Bauer, esponente dell’alta società viennese di quegli anni, raffigurata anche in altri dipinti di Klimt.

 

La posa di Giuditta è estremamente sensuale, ma al tempo stesso rende la sua sacralità, così come la rendono i capelli, che sembrano quasi una specie di aureola, e come la rende lo sfondo, dorato e stilizzato, sul quale si staglia la sua figura. Alcuni critici hanno letto, nel simbolismo dell’opera, il desiderio di rappresentare una Giuditta positiva, una specie di regina del Bene, che lotta contro il male. La verità è che la Giuditta di Klimt si mantiene nel registro del sacro, rivisitato però in chiave moderna, proprio per poter essere provocatoria e dissacrante. È si una regina, ma non del Bene. È semplicemente e indiscutibilmente LA Regina di tutto.

In questa donna affascinante, sembrano sopite enigmatiche forze, energie, impulsi che non potrebbero essere placati, una volta che ciò che è costretto a rimanere borghesemente assopito, dovesse davvero prendere fuoco.. Meravigliosamente dipinto è il corpo di questa Giuditta, questo corpo mascolino, quasi scarno, che sembra distendersi e allungarsi.

 

Source: freedamedia.it

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